Schoinoussa
A volte ho l’adrenalina e la fretta di fare una foto illudendomi che con quello scatto rapido e fugace io possa anche immortalare l’emozione che provo in quell’istante. È proprio questo il motivo per cui rivedendo a distanza di tempo le foto sul telefono non le trovo più così belle e coinvolgenti come quando le ho scattate, questo per esempio accadeva oggi. Siamo partiti da Ios la mattina, senza fretta, una navigazione breve e tranquilla, io ho letto ben 5 pagine del mio libro, i bambini si sono auto tatuati per due ore e per pranzo eravamo a Schoinoussa.
Il mare aperto era interrotto da terre, alcune chiamarle isole era un’esagerazione, più che altro erano grossi scogli, disabitati, secchi bassi e sassosi. Il paesaggio ci ricordava molto un ormeggio spaziale fatto 17 anni fa, in una baia stretta stretta, acqua cristallina e degli scogli piatti si cui a ferragosto avevamo grigliato delle cosce di pollo, l’unica pietanza grigliabile trovata nel mini mini market dell’isola. Peccato che non avevamo la certezza che il posto fosse quello, e soprattutto non ci ricordavamo il nome dell’isola, ussa, issi, os, ka….impossibile! Così appena vedevamo un’insenatura ci avvicinavamo per vedere se il ricordo prendeva forma o meno, ma era tutto talmente uguale che era come trovare un ago in un pagliaio. Dietro un’isola ne apparivano altre due, poi mare aperto, poi le raffiche sull’acqua piatta, poi ancora terra. Iago per un tratto di navigazione stava a prua a vedere il fondale basso che pareva si potesse toccare. Poi mentre Shibumi scivolava sull’acqua io e Caronte saltiamo sul tendere e andiamo a fare due scatti alla barca vista dal mare.
Schoinoussa è un piccolo anticipo di quello che sanno le piccole Cicladi tra qualche giorno. Selvaggia il giusto, molto frastaglia, poche spiagge, mare molto bello, vento. Diamo fondo in una baia carina dove però era impossibile arrivare a terra perché i pochi metri di spiaggia a disposizione erano “privati”. Andiamo allo spiaggione accanto, un bel pezzo di strada in tender da fare, e il sole che iniziava a scendere così anche il colore del mare prendeva altre sfumature, le nostre preferite. Alle spalle della spiaggia correva un muretto a secco con dietro pecore e asinelli, poi da lì saliva morbida una collina e in cima il paesello. In fondo alla spiaggia una scala di sasso e uno sterrato portavano al centro del paese. Ci fermiano in spiaggia per un tuffo e un caffèà frappè, poi una volta asciutti una bella camminata ci porta al paese.
Una sola via di case basse e ristrutturate si alternavano a ruderi in attesa di una rimessa a nuovo, vecchi portoni e portici di vite, la chiesa? Bianca e azzurra, accecante, luminosa.
Gli unici tre negozi al loro interno avevano ancora scaffalature in legno un po’ sghembe, pavimenti scoloriti e scavati all’ingresso, prodotti messi lì senza una logica, Coca Cola e prodotti locali allo stessa altezza. Pane infilato nelle ceste annodate a mano, biscotti da forno dentro sacchetti di plastica chiusi con un fiocchetto, niente etichetta ingredienti, niente gluten free, niente “no olio di palma”, semplicemente biscotti…. e poi il bancone di frutta e verdura, tutto colto negli orti dell’isola, nulla viene da “fuori”. Le pesche sono enormi e succose e i pomodori rossi carnosi, che profumano di buono, poi le prugne e i cetrioli giganti, poi le zucchine dolci e piccoline e i mazzi di origano secco e le trecce di aglio. In uno di questi negozietti prendiamo del pane e una specie di pizza e ci fermiamo a mangiarli sul muretto della chiesa. Un vecchino dall’uscio di casa sua assiste alla scena. I bambini seduti si litigano la pizza, Stefano in mezzo fa da paciere, io in piedi con Pepper, non ci sto sul muretto, così il vecchino a parole che non capisco e gesticolando mi dice che posso sedermi sul muretto di casa sua. Fa uno sproloquio in greco, indicando a turno i bambini, il cane, la pizza…noi non parliamo, sorridiamo e annuiamo con la testa, incantati dalla sua gentilezza.
A merenda finita, proseguiamo, la strada fa un cerchio intorno alla chiesa, tavolini pastellosi curati e semplici coprono la piccola piazzetta. La via termina nel niente, dai ciottoli si passa ad uno sterrato polveroso che scende sul lato est dell’isola tra i mulini e i campi. Noi non scendiamo, rimaniamo nel punto più in alto per vedere Shibumi all’ormeggio e il mare che abbraccia l’isola a 360°.
Poi l’incontro magico, uno dei ricordi più dolci e penetranti di questi giorni, o forse di tutte le vacanze greche fatte. Ritorniamo verso la barca, attraversiamo di nuovo l’unica strada del paese, il sole sta tramontando, contro luce vedo una vecchina vestita a lutto, nera, in contrasto al bianco del solito muretto che affianca l’ingresso delle abitazioni su cui è seduta, appoggiato al muro il suo bastone. Sono pronta a scattare una foto, un’immagine stupenda, un bel momento.
Lei ci vede passare, schierati tutti e sei, che camminiamo lenti illuminati dalla luce corallo del sole. I bambini la guardano incuriositi, catturati dal foulard a triangolo nero, o dalle ciabattone di lana, oppure divertiti dal sorriso a un dente, il canino. Lei con una mano ci fa cenno di fermarci, tutta piegata in avanti e zoppicante scende i tre scalini per entrare in casa sua; esce, sempre ricurva su se stessa, con le mani piene di caramelle. Le mette nelle mani dei bambini sorridente e felice, loro più di lei. Poi sparisce di nuovo nella sua cucina ed esce con un vegetale tra le dita, una via di mezzo tra un cetriolo e una zucchina, lo da a Timo e inizia a parlare, scompiglia i capelli sulle testoline dei bambini, li accarezza, sorride, ancora, sempre. Ha gli occhi dolci, semplici, un po’ vetrosi, verdi grigio o marroni non si capiscde, le mani sono vissute, dure e rugose, avrà più di 90 anni, seconde me può passare tranquillamente i 100. Mi fa segno con la mano toccandosi i lombardi, che ha male alla schiena, molto male, io sono imbarazzata, cosa le posso dire? In che lingua poi? Le faccio coraggio con una carezza, lei è commossa, io pure. Poi arriva una bambina del paese le porta una Fanta Orange con cannuccia e la lascia li ai suoi piedi, lei da sotto il golfino prende una caramella e gliela mette nelle mani.
Le chiedo se posso farle una foto con i bambini (a gesti ovviamente) lei si esalta, li prende per le mani, e per le spalle e li posiziona tutti intorno a sé. Vorrebbe tenere in braccio Timo ma lui è timoroso così lo lascia libero di mettersi dove vuole. Sorride, di nuovo, questa volta per mettersi in posa e fare CIIIISSSS. Ci saluta andando a prendere un altro cetriolone in cucina. I bambini l”aspettano in cima ai gradini per allungarle una mano a salire.
La aiuto a rimettersi a sedere, le allungo la lattina con la cannuccia che era ai suoi piedi, da sola malridotta com’era con la sua schiena non ci sarebbe mai arrivata a prenderla. La salutiamo, Timo le manda dei baci con la manina. Noi ci rischieriamo nella nostra formazione a 6 che occupa tutta la via, proseguiamo zitti, commossi, felici e fortunati.
Dentro mi rimane quel magone e quella tenerezza di quando stai a stretto contatto con gli anziani, (non tutti), dirle “ciao” sapendo che magari è l’ultima volta. Salutarla è stato come quando saluto la nonna Vituccia, abbracciarla e dirle grazie, così senza una vera ragione, senza un motivo, un solo grazie di esistere, ancora, grazie di poterla guardarla ancora negli occhi e grazie perché con uno sguardo cerco ogni volta di rubarle tutta la forza che ha avuto e che ancora ha e farla un po’ mia. Quella forza che spesso manca, quando sei stanco, disorientato, quando le situazioni e le persone tu prosciugano, quando pensi di non farcela. In quel momento penso ai suoi occhi, come penso a quelli di mia madre (anche se non è ancora anziana) penso che dopo tutto ci sono ancora, sono sopravvissute alla vita e allora mi carico, mi guardo allo specchio e vedo i MIEI di occhi, azzurri, immensi, incorniciati dal tempo che inizia a passare, me li immagino quanto incrocieranno una giovane donna tra tanti anni che vedrà li dentro la stessa forza che io vedo ora negli sguardi di chhi ha vissuto. Troveranno li dentro tanta serenità, tanta gratitudine, tanto coraggio per aver lottato per raggiungere i propri sogni. Voglio che i miei occhi incuriosiranno, voglio che raccon di me, delle mie storie, delle mie avventure, dei miei traguardi, delle sconfitte. Vorrei che trasuderanno d’amore: per mio marito, per i miei figli, per i miei genitori, gli amici. Vorròe ssere in grado di poter ancora dare anche se non avrò più molto se non le mie storie.
Così scendendo dallo sterrato penso a quello, penso alla vecchina nera, che ferma immobile con la schiena a pezzi e la Fanta in mano, a quanto sarebbe in grado di dare ancora, solo con i suoi racconti. Le nostre chiacchiere si concentrano così su quelle case, sulle vie, sugli animali, su come poteva vivere lì la vecchina nera quando era bambina, cosa faceva tutto il giorno, andava in spiaggia? Aveva il costume? E la barca?
Questi incontri ravvicinati col passato sono perle rare, se solo avessimo potuto parlare la stessa lingua chissà cosa ci avrebbe raccontato di lei, dell’isola, del marito, di tutte quelle foto che si intravedevano appese alla parete del salotto, alcune con davanti un lumino, altre incorniciate d’oro, altre foto di modelle gnocche (queste le ha notate Iago),fefrme in una puntina sul legno della porta, chi erano?
Con tutti questi interrogativi riprendiamo il mare con tender, il sole è calato, il vento è aumentato, fa freddo e a noi domani aspetta una giornata di pulizie di fino in attesa degli amici!!!
È bellissimo leggere i tuoi racconti. Grazie veramente. Reef e Ferruccio